Sul Corriere della sera online di oggi è uscito un articolo di Paolo Di Stefano che fa notare come già Dante rimproverasse l'abitudine degli italiani a servirsi di parole straniere al posto di quelle nazionali.
Noi aggiungeremo che quest'abitudine non sembra essere di tutti gli italiani, ma solo di chi gestisce le informazioni, e cioè giornalisti e politici.
La responsabilità è loro!
Di Stefano prende come esempio l'ultima espressione uscita appunto dalle bocche dei politici: «fake news». Parola usata al posto della nostra «bufala», "parola italianissima, efficacemente utilizzata nell’accezione metaforica della panzana".
Ma «bufala» o «panzana» non andavano bene?
A noi sembrano anche più espressive, efficaci, dirette rispetto al corrispettivo prestito straniero.
Comunque, l'articolista fa notare come già il Poeta criticasse «il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese».
E' nel Convivio che Dante lancia un'invettiva «a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini
d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio
dispregiano».
Dante, Di Luca Signorelli
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Ma perché avveniva questo?
Secondo lui, per cinque «abominevoli ragioni»:
1. La «cechità di discrezione»: l’incapacità di distinguere;
2.
la «maliziata escusatione»: scuse ingannevoli;
3. la «cupidità di vanagloria»: chi vuole farsi bello nel mostrare di conoscere le lingue straniere;
4. l’«argomento di invidia»: l'atteggiamento di chi non sa usare la propria lingua (il proprio «volgare») e quindi la disprezza per infangare chi
invece è in grado di parlarla;
5. la «pusillanimità»: la viltà d’animo di chi snobba le cose della propria patria per esaltare quelle degli altri.
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